Fonte: Dagospia
BAZOLI & PASSERA APRONO IL SETTIMANALE DI DE BENEDETTI E GODONO “GERONZI AL VERTICE DI MEDIOBANCA? IL CAPITALISMO ITALIANO NON HA ETICA” “COME CI POSSIAMO FIDARE DI CHI HA DEI CONTI IN SOSPESO CON LA GIUSTIZIA?” Ma qual è il vero volto del capitalismo italiano? Di che pasta sono fatti alcuni suoi esponenti di maggiore spicco? A quale etica obbediscono i loro comportamenti? Quale sarebbe la loro capacità di aiutare la crescita economica, ma anche quella civile del Paese? Per chi ha imparato dalla storia che finora la democrazia politica ha prosperato soltanto se coniugata con una sana economia di mercato, simili interrogativi sorgono spontanei alla luce delle novità giudiziarie relative a due fra i maggiori scandali finanziari degli ultimi tempi: il crack Parmalat e la scalata a Banca Antonveneta. Vicende fra loro assai diverse, ma accomunate dal disprezzo delle buone regole mercantili che il variopinto cast dei protagonisti ha proiettato intorno a sé. Nello stesso giorno - di nuovo un fatidico 25 luglio - una quarantina di personaggi è stata rinviata a giudizio per il primo caso, mentre un'altra settantina di richieste di processo è stata avanzata per altrettanti inquisiti nel secondo caso. Insomma, più di cento persone, a vario titolo, coinvolte in assai discutibili imprese. Un numero così elevato è di quelli che danno da pensare, perché fa ritenere che non ci si trovi di fronte a qualche sparuta mela marcia, ma a una tendenza delinquenziale che, stando ai rilievi della magistratura inquirente, si presenta come un fenomeno ampio, diffuso e pervasivo nel sistema. Pessima impressione che risulta avvalorata dalla presenza di alcuni nomi di forte spicco tra i personaggi nel mirino dei giudici.
Per la storia Antonveneta, niente meno che l'ex governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio: cioè, colui che per una dozzina di anni è stato il supremo monarca del mercato bancario nazionale. Cosicché oggi si apprende che taluni comportamenti del già potente numero uno del sistema creditizio potrebbero meritare un'infamante condanna penale. Mentre, in un filone specifico della vicenda Parmalat, è impigliato il gran patron di Capitalia, Cesare Geronzi, ora seduto alla scrivania che fu di Enrico Cuccia in Mediobanca. Anche in questo caso le accuse (concorso in bancarotta) sono di quelle che feriscono non poco l'immagine di chi esercita il delicato ruolo di banchiere. A maggior ragione, poi, perché lo stesso Geronzi ha già subito una condanna di primo grado per analoga imputazione nel processo relativo a un altro crack finanziario, quello del cosiddetto Bagaglino. In un paese dove il capitalismo avesse solide e profonde radici, simili eventi giudiziari avrebbero provocato reazioni severe e immediate, soprattutto da parte dei protagonisti del potere economico più attenti alla difesa della credibilità e del buon nome del sistema. Basti ricordare la durezza degli interventi legislativi e giudiziari con i quali negli Stati Uniti si è gestito lo scandalo Enron. Niente del genere in Italia. Gli ultimi sviluppi processuali delle vicende Parmalat e Antonveneta sono scivolati nella sostanziale noncuranza del mondo economico e finanziario, quasi si trattasse di questioni riguardanti un altro paese o, addirittura, un altro pianeta.
Dalla Confindustria ai vertici del sistema bancario, tutti hanno nascosto la testa nella sabbia. Secondo una strategia dello struzzo che è stata magari aiutata da qualche fortuita concomitanza. In particolare dall'aprirsi, in connessione con il caso Antonveneta, di un fronte politico dopo la richiesta del giudice milanese Clementina Forleo di ottenere dal Parlamento l'autorizzazione a utilizzare nelle sue indagini le intercettazioni telefoniche nelle quali due leader di peso, come Massimo D'Alema e Piero Fassino, manifestavano il loro favore verso il tentativo di scalata alla banca padovana da parte del mondo cooperativo attraverso l'Unipol, allora guidata da Giovanni Consorte, a sua volta indagato. Forse era scontato che la chiamata in causa di personaggi politici di tale calibro finisse con l'esercitare una potere d'attrazione superiore nei confronti dell'opinione pubblica. Fatto sta che, con l'attenzione generale concentrata su Parlamento e dintorni, il 25 luglio del capitalismo italiano è stato archiviato come una giornata qualunque. Un ulteriore elemento che probabilmente ha favorito la silente indifferenza del mondo economico sugli sviluppi delle inchieste Parmalat e Antonveneta è dato dal fatto che la gran parte degli inquisiti si trova ormai in condizioni, diciamo così, di non nuocere per aver perso gli incarichi ricoperti. È questo il caso dell'ex governatore Fazio (dimissionario da quasi due anni) e del suo più prossimo sodale, il factotum della sventurata Banca Popolare di Lodi, Gianpiero Fiorani. Altrettanto può dirsi per l'avventuroso patron di Unipol, Giovanni Consorte, oltre che ovviamente per Calisto Tanzi estromesso ormai da tutto. Perché perdere tempo a pronunciarsi su personaggi privi di ogni potere e su incresciose vicende comunque del passato? Questa sembra essere stata la pavida consegna della nomenklatura finanziaria e industriale del Paese.
Atteggiamento che però rischia di fare da cinico paravento a una clamorosa eccezione. Fra i personaggi di maggior rilievo coinvolti in queste poco edificanti vicende ce n'è almeno uno che resta indisturbato al suo posto e, anzi, di recente ha perfino acquisito nuova e più importante posizione di potere: il già citato presidente di Capitalia, Cesare Geronzi, diventato nel frattempo anche presidente del consiglio di sorveglianza di Mediobanca a seguito dell'incorporazione della banca romana nel gruppo Unicredit. Cosicché la sua figura finisce per assumere inevitabilmente il ruolo di banco di prova dell'etica di comportamento del sistema bancario ma, più in generale, del capitalismo domestico in forza del peso cruciale di Mediobanca nella configurazione del potere economico nazionale. È il caso di ricordare, infatti, che l'uomo seduto al vertice dell'istituto di Piazzetta Cuccia ha ricevuto tanto importante investitura da una compagine di azionisti nella quale figura una parte sostanziosa del gotha finanziario nazionale: gruppi quali Pirelli, Pesenti, Ligresti, Mediolanum oltre che, naturalmente, Unicredit e Capitalia. Né meno rilevante è l'elenco pur sommario delle società partecipate da Mediobanca sulle quali dalla sua poltrona Cesare Geronzi è in grado di esercitare un'ampia gamma di condizionamenti. Innanzi tutto, il gigante assicurativo-bancario delle Generali, ma poi anche l'impresa editrice del 'Corriere della Sera' e la Telecom, nonché le aziende di alcuni suoi azionisti, quali l'Italmobiliare di Pesenti, la Fondiaria di Ligresti e ancora Pirelli. Una formidabile rete di potere economico che, con la recentissima alleanza con i Benetton, ha allargato la sua influenza anche alle infrastrutture autostradali e di nuovo a Telecom. È normale e ben fatto che questo imponente spezzone del capitalismo nazionale si faccia rappresentare e insieme cogestire da chi ha in sospeso sgradevoli conti con la giustizia?
È davvero singolare che non si siano posti un simile interrogativo le figure più eminenti del capitalismo nazionale, ma neppure gli esponenti della classe politica. Due sole voci si sono levate sulla questione: quella del ministro Antonio Di Pietro, sul versante di maggioranza, e quella del deputato Bruno Tabacci dall'opposizione. Gli altri tutti zitti. Quasi a dare ragione a chi sostiene che la rinomanza di Cesare Geronzi come banchiere non nasce tanto dalla buona qualità dei suoi prestiti, quanto piuttosto dall'importanza delle sue frequentazioni oltre che da un'accorta scelta dei clienti da finanziare. Fra l'altro, quello del crack Parmalat non è neppure il primo e unico guaio giudiziario di Geronzi. Questi è già stato oggetto di una condanna in primo grado per bancarotta preferenziale (il ricordato caso Bagaglino) e ha subito per due volte provvedimenti di interdizione temporanea dall'attività da parte della magistratura. In tutti questi casi il consiglio d'amministrazione di Capitalia non ha fatto una piega, reintegrandolo nel suo incarico e nei suoi poteri non appena possibile. Analogamente si sono comportati i suoi colleghi di Mediobanca dove egli era allora componente del consiglio. Si dirà che simili atteggiamenti sono stati assunti in forza di un principio di civiltà fondamentale: la presunzione di innocenza che va riconosciuta a chiunque fino a quando l'eventuale condanna non sia diventata definitiva. E nel caso di Geronzi oggi siamo certamente lontani da questa meta. Resta, tuttavia, aperto un problema di stile e di opportunità che ora la posizione assunta dai legali dello stesso Geronzi rischia di rendere più acuto. Nel caso Parmalat questi è accusato di aver promosso un prestito di 50 milioni a Calisto Tanzi nonostante lo stato precario dell'azienda parmense, anche per favorire da parte di quest'ultima l'acquisto (per 18 milioni) di un'impresa d'acque minerali del gruppo Ciarrapico allora seriamente esposto verso la stessa Capitalia. Vicenda assai intricata, per la quale i legali di Geronzi non negano l'esistenza del prestito, ma eccepiscono che non esista un solo pezzo di carta comprovante il coinvolgimento del loro assistito in simile operazione. Una linea di difesa che potrebbe anche rivelarsi efficace nel provare l'innocenza di Geronzi nel caso specifico, ma che comporta un imbarazzante contrappasso. Se così fosse davvero, si finirebbe anche per dimostrare come dalle casse di Capitalia sarebbe uscito un prestito ad alto rischio e da ben 50 milioni senza che il presidente ne fosse avvertito. Un caso di disordine aziendale o di negligenza professionale tale da azzerare la credibilità anche del più limpido dei banchieri.
Sul 'Corriere della Sera' è apparsa nei giorni scorsi una lunga intervista con Alessandro Profumo, il numero uno di Unicredit, autore del grande accordo proprio con Cesare Geronzi per l'incorporazione di Capitalia e per il nuovo assetto del vertice Mediobanca. "Il fatto è", afferma, fra l'altro, Profumo, "che l'Italia è ancora un sistema chiuso, troppo protetto. Dove vige spesso la cooptazione collusiva. Serve un sistema più aperto che consenta di premiare il merito. Solo questo è l'antidoto per scardinare il sistema delle caste". Ben detto, perbacco! Questa sì che sarebbe l'etica di un capitalismo geloso del suo buon nome e utile alla crescita civile del Paese. Ma quando dalle parole ai fatti? Il banco di prova del caso Geronzi è lì che aspetta. Dagospia 21 Agosto 2007 Clicca qui per saperne di piu' su: |
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